IL CACCIATORE DI AQUILONI * KHALED HOSSEINI

Attorno a me non facevano che cadere aquiloni, ma il mio stava ancora volando, stava ancora volando! Babà era sorpreso che io resistessi così a lungo? Se non tieni gli occhi fissi al cielo sei spacciato. Un aquilone rosso si stava avvicinando. Me ne accorsi giusto in tempo. Ci fu una scaramuccia, ma io vinsi quando, persa la pazienza, l’avversario cercò di tagliarmi da sotto.
[…]Il premio più ambito volava ancora alto nel cielo.[…]
Un’ora dopo il numero degli aquiloni sopravvissuti era sceso da una cinquantina a circa dieci. Il mio era tra questi. Sapevo che la parte finale del torneo sarebbe durata a lungo, perché i ragazzi che avevano resistito fino a quel punto erano in gamba e non sarebbero caduti facilmente in un trabocchetto.
Verso le tre del pomeriggio nel cielo era apparsa una nuvolaglia che aveva nascosto il sole. Le ombre si allungavano. Il pubblico sui tetti si proteggeva dal freddo con coperte e scialli. Gli aquiloni adesso erano una mezza dozzina, e il mio stava ancora volando. Mi facevano male le gambe e mi era venuto il torcicollo. Ma a ogni aquilone che cadeva nel mio cuore si accendeva una nuova speranza.
[…]L’aquilone azzurro ne tagliò uno color porpora disegnando nel cielo due ampi cerchi. Nei dieci minuti successivi ne abbattè altri due, cui diedero la caccia orde scatenate di ragazzini.
A distanza di mezz’ora in cielo erano rimasti solo quattro aquiloni. Il mio stava ancora volando. Sembrava che ogni folata di vento soffiasse in mio favore. Non mi ero mai sentito così fortunato, così padrone di me stesso. Era eccitante. Non osavo guardare il tetto di casa. Dovevo concentrarmi, giocare il tutto per tutto. Un quarto d’ora dopo, il sogno che il mattino mi era sembrato impossibile era diventato realtà. Eravamo rimasti in due: io e l’aquilone azzurro.
L’atmosfera era tesa come il filo smerigliato che impugnavo con le mani sanguinanti. La gente pestava i piedi, batteva le mani, fischiava e scandiva: «Boboresh! Boboreshf Taglialo! Taglialo!» Tra quelle voci c’era anche quella di mio padre? […]
Io, però, sentivo solo il pulsare del sangue alle tempie. Vedevo solo l’aquilone azzurro. Annusavo solo il profumo della vittoria. Salvezza. Redenzione. Se Babà si sbagliava e c’era un Dio, come mi insegnavano a scuola, allora lui mi avrebbe fatto vincere.
Non sapevo per cosa stesse lottando il mio avversario, forse solo per il diritto di vantarsi. Ma questa per me era la sola opportunità di essere guardato e non soltanto visto, di essere ascoltato e non soltanto udito. Se Dio esisteva, doveva guidare il vento, farlo soffiare in mio favore in modo che con uno strattone io potessi liberarmi del mio dolore e del mio tormento. Avevo sopportato troppo. Ed ecco che improvvisamente la speranza diventava certezza. Avrei vinto. Era solo questione di tempo.
Una folata di vento fece alzare il mio aquilone. Ero in vantaggio. Mi portai sopra quello azzurro e mantenni la posizione. Il mio avversario sapeva di essere nei guai. Tentò una manovra disperata per liberarsi di me, ma io non glielo permisi. La folla intuiva che la gara stava per concludersi. «Taglialo! Taglialo!»
«Ci sei quasi, Amir agha! Ci sei quasi» gridò Hassan ansimando.
Chiusi gli occhi e allentai la presa sul filo. Il vento lo faceva scorrere tra le mie dita incidendo tagli profondi. E poi… Non ebbi bisogno di ascoltare il boato della folla. Né di vedere quello che accadeva attorno a me. Hassan urlava di gioia e mi abbracciava. «Bravo! Bravo! Amir agha!» Aprii gli occhi e vidi l’aquilone azzurro scendere in una spirale impazzita, come una ruota che si fosse staccata da un’automobile in corsa. Cercai di dire qualcosa, ma nessun suono mi uscì dalle labbra. Mi sembrava di lievitare, di guardare me stesso dall’alto.[…]
Un secondo dopo urlavo a perdifiato in un turbinio di colori e suoni. Gettai il braccio libero attorno alle spalle di Hassan e insieme ci mettemmo a saltellare, ridendo tra le lacrime. «Hai vinto Amir agha! Hai vinto!» «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!» Non riuscivo a dire altro.
KHALED HOSSEINI * IL CACCIATORE DI AQUILONI
***

Nel fioco chiarore della luna vidi il suo sguardo allucinato scorrere sul volto dei passeggeri e fermarsi sulla giovane donna avvolta nello scialle nero. Disse qualcosa in russo a Karim senza toglierle gli occhi di dosso. Ci fu un secco scambio di battute. Anche il soldato afghano intervenne, parlando con voce bassa e suadente. Ma il russo rispose qualcosa che fece sussultare gli altri due. Sentivo Babà irrigidirsi al mio fianco. Karim si schiarì la gola e abbassò il capo. Spiegò che il soldato voleva passare mezz’ora con la donna.
La giovane si tirò lo scialle fin sopra al viso e scoppiò in lacrime. Anche il piccolo si mise a piangere tra le braccia del padre, che era pallido come la luna. Disse a Karim di pregare “il signor soldato sahib” di avere misericordia, forse aveva una sorella o una madre, forse aveva una moglie. Il russo ascoltò Karim e abbaiò qualcosa in risposta.
«È il prezzo del permesso di transito» tradusse Karim senza avere il coraggio di guardare il marito negli occhi.
«Ma abbiamo già pagato molti soldi.»
Karim e il soldato parlarono ancora.
«Dice… che su ogni prezzo c’è una tassa.»
A quel punto Babà si alzò. Allora fui io a stringere la sua coscia, ma lui liberò la gamba. «Voglio che tu chieda a quest’uomo» tuonò rivolto a Karim, ma guardando dritto in faccia il soldato russo «se non si vergogna.»
«Dice che siamo in guerra e in guerra non esiste vergogna.»
«Rispondigli che si sbaglia. La guerra non cancella il rispetto. Anzi, in guerra è ancora più necessario che in tempo di pace.»
Devi sempre fare l’eroe? Pensai con il cuore in gola. Non puoi lasciar perdere una volta tanto? Ma sapevo che non era nella sua natura. Solo che questa volta la sua natura ci avrebbe portati alla morte.
KHALED HOSSEINI * IL CACCIATORE DI AQUILONI
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«Strano» dissi.
«Cosa?»
«Mi sento come un turista nel mio stesso paese.» Seguii con lo sguardo un pastore seguito da una mezza dozzina di capre emaciate.
Farid ridacchiò. Gettò via il mozzicone della sigaretta. «Pensa ancora a questo posto come al suo paese?»
«Una parte di me considererà sempre l’Afghanistan il mio paese.»
«Dopo vent’anni in America!» disse sterzando bruscamente per evitare una buca.
«Ci sono cresciuto.»
Farid ridacchiò ancora.
«Perché continui a ridacchiare?»
«Lasci perdere» mormorò.
«No. Voglio saperlo. Perché?»
Nello specchietto retrovisore vidi passare un lampo nei suoi occhi. «Vuole saperlo?» chiese con un sorriso sardonico. «Posso immaginare la sua vita, agha sahib. Probabilmente viveva in una grande casa di due o tre piani con un bel giardino e alberi da frutto. Naturalmente tutto recintato. Suo padre aveva un’automobile americana. Avevate servi, probabilmente hazara. I suoi genitori si facevano addobbare la casa in occasione dei mehmanis che davano per i loro amici. Gli invitati bevevano, si vantavano dei loro viaggi in Europa e in America. E ci scommetterei gli occhi del mio figlio maggiore che questa è la prima volta che indossa un pakol.» Mi sorrise, mostrando due file di denti precocemente guasti. «Ci sono andato vicino?»
«Perché mi dici queste cose?»
«Perché vuole sapere» rispose pronto. Mi indicò un vecchio vestito di stracci che caracollava giù per un sentiero, con un enorme fascio d’erba sulle spalle. «Questo è il vero Afghanistan, agha sahib. L’Afghanistan che io conosco. Lei? Lei è sempre stato un turista qui, solo che non lo sapeva.»
KHALED HOSSEINI * IL CACCIATORE DI AQUILONI
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Guardai Sohrab. Un angolo della sua bocca si era impercettibilmente sollevato. Un sorriso. Abbozzato, ma pur sempre un sorriso.
Dietro di noi si era già formata una mischia urlante di ragazzini, pronti a dare la caccia all’aquilone verde che ondeggiava alla deriva. Un attimo, e il sorriso era già scomparso. Ma c’era stato. L’avevo visto.
«Vuoi che dia la caccia all’aquilone?»
Vidi il piccolo pomo d’Adamo di Sohrab salire e scendere come per deglutire. Il vento gli scompigliava i capelli. Mi parve di vederlo annuire.
«Per te questo e altro» dissi senza rendermene conto. Poi mi voltai e mi misi a correre.
Era solo un sorriso, niente di più. Le cose rimanevano quelle che erano. Solo un sorriso. Una piccola cosa. Una fogliolina in un bosco che trema al battito d’ali di un uccello spaventato.
Ma io l’ho accolto. A braccia aperte. Perché la primavera scioglie la neve fiocco dopo fiocco e forse io ero stato testimone dello sciogliersi del primo fiocco.
Correvo. Ero un uomo adulto che correva con uno sciame di bambini vocianti. Ma non mi importava. Correvo con il vento che mi soffiava in viso e sulle labbra un sorriso ampio come la valle del Panjsher. Correvo.
KHALED HOSSEINI * IL CACCIATORE DI AQUILONI
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1 Commento

  1. delfinoazzurro

    è davvero un bel libro!anche il film!

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