Márai Sándor * L’ultimo dono

Siamo coetanei, abbiamo vissuto una vita completa (ottantasei anni), se il destino avrà pietà di noi, ce ne andremo entrambi contemporaneamente: sarebbe l’ultimo dono.
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I morti. Sono talmente tanti che non trovano più spazio nella memoria.
La sovrappopolazione non esiste soltanto nel mondo dei vivi. Anche nell’altro mondo c’è una gran ressa.
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Dalla fede istituzionalizzata evapora esattamente ciò che la fede è.
Così come il contenuto evapora dalla letteratura e dall’arte, non appena diventano istituzionali.
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Non apro mai i miei libri pubblicati tempo addietro, ma stavo cercando qualcosa nel volume del Diario 1943-1944, quando mi sono imbattuto nel seguente brano: «Finora mi sono toccati quarantatré anni di vita. E se me ne toccheranno di nuovo altrettanti? E ne avrò ottantasei? Avrò aumentato le mie conoscenze? Sarò più felice? Intuirò qualcosa di più certo su Dio, sugli uomini, sulla natura e su ciò che è sovrannaturale?
Credo di no. Per acquistare esperienza c’è bisogno di tempo, tuttavia il tempo, una volta oltrepassato un certo livello di conoscenza, non approfondisce l’esperienza. Sarò semplicemente più vecchio, niente di più e niente di meno». Le frasi risuonano in modo strano mentre passano dal 1943, quando il libro venne scritto, fino ad oggi, al 1985. La domanda si è trasformata in realtà, per arrivare agli ottantasei mi manca soltanto un anno. E non ho aumentato le mie conoscenze. Mi limito piuttosto a racimolare quello che sapevo già quarant’anni or sono, ma che nel frattempo ho perduto, dimenticato.
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In nottata ho provato a leggere (Spinoza, Ethics, in inglese), ma in modo disattento, così ho smesso. Più tardi liriche, poeti di casa, autori nuovi. Non sentendo trapelare la musica dalle poesie, ho lasciato perdere. La grande stanchezza dovuta ai lavori forzati degli ultimi mesi, adesso che lei non sta più giorno e notte con me, non è scomparsa.
Vado e vengo in taxi, e quei pochi passi che mi tocca fare li faccio barcollando. Spero di resistere fin quando avrà bisogno di me. E molto bella, talvolta la bellezza del tramonto è più convincente della bellezza trionfante della gioventù, della femminilità compiuta.

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Sono in molti a comprendere soltanto tardi che il mistero più grande, nella vita, non è la morte, bensì il morire. E ogni ars moriendi è pura fantasticheria, un’arte simile non esiste. L’infermiera dice che sua madre ha novantasette anni, è cieca, eppure «fa tutto da sola, a tentoni».
L’orizzonte umano non conosce confini.

In nottata provo a leggere l’Etica di Spinoza: mi interrompo a metà, provo disgusto. Sono soltanto parole, parole e nient’altro. La realtà è muta.

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Non si poteva far altro, ma è terribile che lei non stia con me, che io non stia con lei giorno e notte, che lei non ci veda e che io non possa vedere al posto suo. Non so fino a quando riuscirò a sopportare tutto questo.
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Il tempo – giorno, notte, pomeriggio, mattina – per lei non esiste più. Dentro di me alberga una specie di supplica incomprensibile e priva di senso, affinché un raggio cosmico ristabilisca l’equilibrio della coscienza, dopodiché il corpo potrebbe rimettersi in forze, potrebbe ancora tornare a casa, moriremmo insieme. Sono molto infelice. Ragionare – è arrivato il momento, abbiamo vissuto una vita completa – non serve. Lei era una creatura meravigliosa, una donna al cento per cento, in possesso di tutte le qualità umane e femminili, era il senso della mia Vita, lo è tuttora. Se lei se ne va, nulla avrà più senso.

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Thanks giving Day. Provo una gratitudine profonda per averla incontrata e per aver trascorso la vita intera insieme a lei. Una gratitudine profonda. E poi, al di là di tutto, un dolore inesprimibile.
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Non è più «viva», non è ancora «morta», è cosciente, ma è lontana da tutto. Il suo volto è serio, non accigliato e neppure sofferente. Semplicemente serio.
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Uno degli ultimi versi di Babits moribondo: «Forse la morte non è poi così grandiosa». Forse. Ma il «fatto» più grandioso della vita è morire.
Quello che viene dopo non ha importanza. Quello che accade in quel momento è incomprensibile e spaventoso.

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Arrivo alle sei del pomeriggio; hanno già finito di cenare, ma sul tavolino a rotelle le portate sono rimaste lì intatte: l’infermiere dice che è riuscito a darle solo un poco di minestra, perché ha rifiutato tutti i cibi compatti. Non si rende conto della mia presenza, ogni tanto geme con voce roca, come se provasse dolore, tuttavia il suo viso è tranquillo. Quindi si mette a gridare: «Die, die, die». Vuole morire, il suo polso è regolare.

Nel grande magazzino della morte, gli acquirenti organizzano una gara di corsa in carrozzella nei corridoi. Alcuni cadaveri si sono messi in ghingheri. Qualsiasi cosa, fuorché una morte consumistica come questa.

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Avverto un tale vuoto nel mondo, intorno a me, dentro di me, come se dalla morte mi voltassi indietro a guardare la vita – sempre che questo sia possibile.
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Finora non mi ero reso conto di quanto lei fosse tutt’uno con me, siamo uniti da una totale comunione fisica e spirituale. Abbiamo vissuto insieme per sessantadue anni sperimentando di tutto, amore, collera, tutto ciò che deriva immancabilmente da una vita in comune, ma finora non mi ero reso conto di quanto lei e io fossimo diventati tutt’uno.

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Ma oggi mi sono reso conto per la prima volta in vita mia di non sentirmi più legato a nulla. Sarei sollevato al pensiero di poter ancora, per quanto riguarda la morte, prendere i miei provvedimenti, senza dover attendere impotente che abbia inizio la decomposizione. Chissà se oggi potrei… Ma mi vergogno di rifugiarmi nella morte finché Lola è viva. Penso alla morte con una calma estrema, come all’ultimo grande dono. Vivere ancora il tempo di prendere una boccata d’aria, con un occhio solo, l’andatura barcollante, provando nausea per tutto ciò che un tempo consideravo attraente, rievocare con disgusto la scrittura
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Oggi sono trascorse quattro settimane dal giorno in cui è morta, sabato all’ora di pranzo, all’una e quaranta. Ma non è possibile sapere con certezza quale sia stato l’attimo della morte. Nelle ultime due ore respirava regolarmente, con calma. Una delle sue mani la tenevo io, l’altra l’infermiera che le misurava la pressione. Poi mi ha avvertito con un cenno che il misuratore della pressione non indicava più nulla.
Eppure lei respirava ancora. Ha «esalato l’anima», letteralmente. Sono rimasto ancora per mezz’ora seduto accanto al suo letto a guardarle il volto. Non era «serio», non si era nemmeno «abbellito»: era diverso.
Come se tutto ciò che la cosmesi della vita applica su un volto umano – passione, dolore, serenità, tristezza – fosse scomparso dal suo. Quella serietà, quella nobiltà che sul volto dei vivi vengono sempre coperte da qualcosa.

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La rabbia. Nessuna commozione né raccoglimento, nulla di tutto ciò.
Bensì rabbia. Talvolta una rabbia furibonda. Perché è morta. Rabbia con il medico, perché non è riuscito a prestare aiuto. Rabbia con Dio (sempre che esista), perché non è venuto in soccorso, e rabbia con Dio (qualora non esista), per il fatto che non c’è proprio quando abbiamo bisogno di aiuto. Rabbia con gli uomini, perché non sono stati d’aiuto.
E con me stesso, perché non sono riuscito a fare di più. Rabbia con lei, perché è morta. Il volto della moribonda. Come se dal suo volto avessero piallato via tutto quanto: sorrisi, tristezza, malizia, afflizione, tutto. E affiora quella che è l’unica realtà, il volto di una donna. Il volto dell’unico essere umano con il quale mi sentivo in comunione. Mi sforzo di rievocare i suoi difetti, chissà che questo non mi aiuti a sopportare meglio la situazione. Ma tutto ciò che rievoco è ridicolo, privo di senso e di contenuto. Era fatta così, e adesso non c’è. Quel che è rimasto di lei, in forma di polvere, è scomparso nell’Oceano Pacifico: granellini di polvere a milioni. Il che, se non altro, è igienico. Il fuoco e l’acqua sono igienici. Imputridire nel terreno, con gli insetti che le rosicano il corpo… E’ un pensiero raccapricciante.
Così tutto va meglio. Scomparire, in silenzio, è il massimo che ci sia concesso.

Di notte Voltaire. Il XVII secolo, le guerre civili. Assassinavano con slogan religiosi, pur di poter commettere rapine e omicidi. Così come oggi. Come domani, per l’eternità.

La rabbia. La vergogna, perché me ne sto qui a perdere il tempo che mi resta, giorno per giorno.

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La sua mancanza? E’ una sorta di fame d’aria. Non soltanto parole e oggetti la ricordano, ma anche l’aria. Anche all’aria manca qualcosa.
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Comporre liriche non equivale a fare poesia. Talvolta la poesia consiste in un’unica parola. «La parola pesante vola, chissà dove si fermerà».
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Aristotele non credeva nella capacità di sopravvivenza dell’anima: se il corpo cessa di vivere e si dissolve, anche l’anima finisce distrutta e torna al nulla che era stata prima di trasferirsi nel corpo. Per Aristotele l’anima è «motion», azione; lo spirito è statico, vincolato a una persona.

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Morire in buona salute, dev’essere un’ottima cosa.
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E’ morto Gábor, il mio fratello minore. Aveva settantacinque anni, eravamo quattro fratelli, e il primo di noi ad andarsene è stato lui, il più giovane. La notizia della sua morte me lo fa sentire vicino, e all’improvviso mi rendo conto di quanto fosse coerente e signorile, con i suoi modi discreti e silenziosi: esistono uomini dei quali scopriamo la natura soltanto quando non ci sono più, simili in questo alla grande palma abbattuta di recente davanti alla mia finestra. Era colto, di buone letture, dotato di inclinazioni artistiche; uno straniero sulla Terra che esercitò sempre la sua professione, – era avvocato, – con onestà e senza grande trasporto. Subì lealmente, senza lamentarsi, condizioni di vita e circostanze familiari tutt’altro che favorevoli.
Con la sua morte ha inizio la disgregazione della mia famiglia. Continuo a pensare a lui da ventiquattr’ore, con un vago senso di colpa.

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Ogni tanto, nel corso della giornata, lo stupore per il fatto di esserci ancora. E la volontà di «compiere» qualcosa fino all’ultimo istante – i doveri quotidiani o anche altro, qualcosa di superfluo. Non smettere finché sono in grado di reggere lo sforzo.

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Ottantacinque anni fa venni alla luce su questo pianeta. In un giorno simile, il mortale pensa alla morte in maniera diversa dagli ottantacinque anni precedenti. L’uomo è sempre cosciente della morte, la considera un naturale compimento del difficile e incomprensibile corso dell’esistenza, tuttavia si limita ad «averne coscienza», l’accetta.
Arriva infine il tempo in cui l’uomo acconsente a morire. Non è una sensazione tragica. Piuttosto un senso di sollievo, come quando, dopo aver lungamente riflettuto, si comprende qualcosa di incomprensibile.

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Il grande fallimento, nella vita, non consiste nello scoprire da ultimo che ci siamo sbagliati. Ancora più deprimente è accorgersi che non possiamo fare altro che sbagliare.
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Vorrei provare nostalgia di qualcosa… paesaggi, viaggi, città, persone. Ma non riesco più a essere nostalgico. Mi basta «essere»!

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Se le condizioni di L. me lo permettessero, per dove partirei? Non mi viene in mente neanche un luogo di cui io senta nostalgia.
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Ogni tanto gli dèi assestano un colpo, la terra trema, l’acqua dilaga, il fulmine si abbatte, ma si tratta soltanto di intermezzi occasionali. Quel che resta costante è l’ignominia, l’avidità, la vanità, la perfidia, la crudeltà dell’uomo. Mi sono stancato, dentro di me è venuto meno ogni senso di protesta contro la morte. Non desidero la morte, ma ormai non protesto più contro di essa.

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Non scrivo, non leggo, ma a volte sogno che sto scrivendo qualcosa. In sogno le righe scorrono come quelle di un testo proiettato sullo schermo. E le righe hanno un senso, la scelta delle parole è corretta, la composizione è piena di vita. Non sono «io» a scrivere tutto ciò, è qualcosa che accade dentro di me. La via di ritorno dalla vita alla morte è oscura, brancolo dal nulla verso il nulla e lungo il percorso, ogni tanto, una parola, un concetto risplendono come lucciole nella buia foresta.

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Di mattina, telefonata dall’Europa. E’ morto mio fratello minore Géza.
Nel periodo immediatamente precedente e successivo alla morte di Lola, negli ultimi quattordici mesi, la vita per me si è svuotata: se n’è andata Lola, poco prima mia sorella Kató e mio fratello Gábor, adesso Géza. Di tutta la famiglia sono rimasto io – la retroguardia: tra i miei parenti stretti non è più vivo nessuno. Li seguo – loro che «non sono andati via, sono soltanto andati avanti» – in fila indiana. Tutto ciò è sopraggiunto come un’epidemia. Infatti lo è, il tempo è un’epidemia…

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Quel rigo di Shakespeare. «Perché quali sogni verranno mai nella morte…». I sogni spaventosi esistono già nella vita. Ogni tanto ho paura di addormentarmi
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La vecchiaia. Occorre decidere cosa debba farsene l’uomo vecchio della solitudine. Cos’è più giusto: essere soli restandosene da soli oppure essere soli in compagnia? Io vivo ormai da più di un anno in una solitudine che coincide con lo starmene da solo. Non è facile, non è neanche «vita», tuttavia è più tollerabile della solitudine vissuta in compagnia
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Erano in molti a volergli bene: in occasione della messa funebre più di cento persone hanno sottoscritto l’albo dedicato al suo ricordo.

Per quanto mi riguarda, è come se mi avessero colpito con un pugno nello stomaco: un insulto. Le fiabe che si narrano sulla morte – tutte menzogne. La realtà è un insulto, negarlo è un inganno. Detesto i preti, le fiabe narrate dalle religioni. Andarmene in pace, senza inganni e autoinganni penosi. Ormai non ho più nessuno. Quest’uomo era l’ultima «persona» per me. Non voglio più scrivere. E neanche vivere, ma soltanto andarmene in pace. Sarebbe un grande dono non svegliarmi più.

Attimi in cui è come se una bestia impazzita ululasse nel buio. L’attimo in cui alla fine di una lunga vita si capisce che il destino non è semplicemente crudele, ma anche disonesto.

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Un attore, all’età di ottantuno anni, è morto al mattino, nel sonno. Per la prima volta da parecchio tempo sono sinceramente invidioso.

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Vivo completamente solo, dunque non mi annoio. «Paura della morte». Temo che la morte sia noiosa.

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toccarla con mano. L’odore di morte si sprigiona ormai anche dai capi di abbigliamento. Scrivere il Roger. Come un debito d’onore da saldare. L’insieme, nonostante tutti gli orrori e le mostruosità, è stato comunque meraviglioso. Ma ormai mi vergogno di scrivere.
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