TOBIA E L’ANGELO *SUSANNA TAMARO

– Se fossi veramente quello che dici potresti fare qualcosa di fuori del comune. Una grandissima magia. Insomma, un miracolo.
L’angelo si avvolse nelle ali.
– Sono un angelo e anche con un curriculum piuttosto impegnativo. Non sono un saltimbanco né un imbonitore da circo.
Martina sollevò le spalle.

– Lo vedi, avevo ragione. Non sai fare proprio niente. Neanche una delle magie più semplici.
– Per tutti i cirri! Santa ignoranza! Chi ha mai detto che gli angeli devono fare le stesse cose dei maghi?
– Be’, nei cartoni animati, per esempio, chi è invisibile ha sempre qualche potere straordinario… Tu non ce l’hai e così io non ti posso credere.
– Sei la bambina più testarda che mi sia mai stata affidata… Aspetta un attimo, un tentativo lo posso fare…
– E cioè?
– Mettiti sotto le mie ali, chiudi gli occhi e conta fino a dieci…
Martina obbedì.
– Uno due tre… dieci!
Martina riaprì gli occhi.
– Ma sono sempre io! – disse delusa.
– Certo, cosa ti aspettavi, che ti trasformassi in un rospo? Guardati un po’ intorno, piuttosto.
Martina si sporse tra le due macchine.
La prima cosa che la colpì fu proprio la luce. Non era più quella fredda del neon, ma una luce calda, dorata, che avvolgeva ogni cosa in una sorta di diffuso tepore. Solo in un secondo momento si accorse che quella luce non proveniva dalle lampade, ma dal grande numero di angeli che stavano là sopra.
Ce n’era uno per ogni persona. Alcuni avevano il volto allegro, altri meno. Altri ancora si annoiavano con le ali ciondoloni, mentre quelli dei bambini erano sempre pronti a scattare come atleti sui blocchi di partenza.
In lontananza ce n’era uno tutto sudato: il bambino che gli era stato affidato non faceva altro che correre sul bordo dei binari, e lui dietro a tenergli la giacchetta. Ce n’era uno accovacciato vicino alla barbona che dormiva, e un altro seduto vicino al guidatore della metropolitana che in quel momento stava entrando in stazione.
Martina era senza parole.
– Vuoi dire – bisbigliò dopo un po’ – che tutto quello che vedo è vero?
– La bugia non rientra tra le attitudini angeliche – rispose l’angelo un po’ seccato. – Ma vieni, adesso, seguimi. Usciamo da qui.
Uno accanto all’altro salirono sulla scala mobile. Ogni tanto l’angelo salutava qualche collega che scendeva nella direzione opposta.
– Salve! Da quanto tempo non ci si vedeva. Di nuovo in servizio?
– Non me ne parlare! Un piccolo con l’argento vivo addosso.
– Meglio l’argento vivo che niente – rispose un altro, sconsolato. – Io vivo da trent’anni vicino alla mia anima e non mi ha mai degnato di uno sguardo. Per restare sveglio mi devo far solletico con le mie stesse ali.
– Ciao, ciao, buona giornata.
– Buona giornata a te!
Ormai erano giunti sulla strada e la situazione era pressoché identica.
Passò un autobus strapieno con due grandi ali schiacciate nella porta a soffietto.
Davanti alla scuola elementare c’erano talmente tante piume che sembrava avessero sventrato un centinaio di cuscini.
Ogni tanto, nella calca, qualcuno degli angeli perdeva il suo bambino.
– Hai visto Giuseppe?
– Veramente sto cercando Simone.
– Guardate! Alberta è scappata da quella parte… Vola a prenderla…

Martina e l’angelo camminarono fino alla panchina di un giardinetto.
– Uau, mi gira la testa! – esclamò Martina sedendosi. – Non avevo mai immaginato che ci fossero il doppio di persone al mondo.
– Adesso mi credi?
– Affare fatto, ti credo. Ti credo, ma non capisco lo stesso. A cosa servite se tutti fanno finta di non vedervi? Non sarebbe meglio se il vostro capo vi mandasse a fare qualcosa di più soddisfacente?
– Per tutte le nuvole di tempesta, è qui il nocciolo della pesca! Con il tempo e con il progresso la gente ha finito per credere che non esistiamo per niente. Dicevano: “Se con il microscopio vediamo le cose più piccole e con il telescopio le più grandi, com’è possibile che non vediamo gli angeli? Se non si vedono vuol dire che non esistono! Sono cose vecchie, superate! È una truffa, un imbroglio per farci fare quello che vogliono!” Così, piano piano, ma neanche tanto piano, hanno preso una spugna e zac! Ci hanno tolto di mezzo. Qualcuno di noi è rimasto raffigurato sulla volta di un affresco, qualcun altro elencato nei libri di cose strane, tra i liocorni e leviatani.
– E allora perché non ve ne siete andati davvero?
– Perché il nostro, e il vostro, Creatore è infinitamente paziente. Così lo siamo anche noi. Viviamo sospesi nell’attesa del vostro sguardo.
– E cosa dice il “vostro” sguardo?
– Dice di essere pazienti e di imparare a crescere dentro.
– Crescere come le piante?
– Come le piante e come le maree, come la luna con la gobba a ponente e la gobba a levante. Crescere come ogni forma dell’universo cresce per compiere il suo progetto.
– Che cos’è il progetto?
– È qualcosa che devi immaginare. E dopo aver immaginato, lo devi fabbricare. Un po’ come un ponte. Tu vuoi andare dall’altra parte, ma non puoi farlo se prima non lo costruisci. Di là del ponte c’è quello che cercavi.
Martina lo guardò sospettosa:
– Non è che ha a che vedere con il destino?
– Fuochin fuochetto. Senza progetto, il destino ti scappa dalle mani come un aquilone in una giornata di vento.
Martina lo ascoltava come aveva ascoltato il nonno.
– Adesso chiudi gli occhi, Marti, e conta da dieci fino a uno. Abbiamo parlato anche troppo.
– Devo proprio?
– Sì. L’importante era che mi credessi.
– Dieci, nove, otto… uno.
Quando li riaprì, il mondo era tornato quello di sempre. Grigio, rumoroso e con la gente che correva intorno.

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