FILOSOFIA DELLA SHOAH * Fabio Minazzi

«I Tedeschi uccisero cinque milioni di Ebrei. Il massacro non si generò dal nulla; poté essere perpetrato in quanto ebbe un significato per coloro che ne furono gli esecutori. Non si trattò di una strategia limitata che poteva condurre ad altri fini, ma di un’impresa, di un evento sentito come una Erlebnis – una “esperienza” vissuta passo dopo passo da coloro che vi hanno preso parte.

«I burocrati tedeschi, che con la loro competenza contribuirono alla distruzione degli Ebrei, furono tutti parte integrante dell’ Erlebnis, gli uni si incaricarono della parte tecnica – redigere un decreto o organizzare un convoglio –, gli altri si appostarono con fermezza alla porta di una camera a gas. Potevano percepire l’enormità dell’operazione fin dai ranghi più bassi. In ogni stadio del processo, diedero prova di stupefacenti talenti da pionieri in assenza di direttive, di coerenza nelle attività, quando mancava un’organizzazione giuridica, di una comprensione fondamentale del compito che dovevano eseguire, nel momento in cui non venivano date comunicazioni esplicite. Quando Reinhard Heydrich e gli Staatssekretäre si riunirono, il mattino del 20 gennaio 1942, per discutere della “soluzione finale della questione ebraica in Europa”, tutti si compresero.

«Il progetto, considerato nel suo insieme, sembrava, retrospettivamente, un mosaico di piccoli frammenti, ognuno poco importante e banale. Questa successione di attività ordinarie, note, memorandum e telegrammi, azioni solidamente impiantate nell’abitudine, nella routine e nella tradizione, si trasformarono in un processo di distruzione in massa. Individui assolutamente comuni avrebbero svolto compiti straordinari. Una falange di funzionari, negli uffici dello Stato e in quelli di imprese private, lavorarono [sic!] per raggiungere il fine ultimo». Esattamente su questa precisa base il processo di distruzione nazista divenne, per sua natura intrinseca, pressoché illimitato e portò, conseguentemente, alla devastazione dell’Europa, inghiottendo nel buco nero del sistema concentrazionario dei lager tedeschi, circa dodici milioni di vittime, assassinate in vario modo.
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Quando i primi filosofi hanno iniziato a pensare Auschwitz lo hanno fatto sviluppando una posizione che li configura quali eredi della critica romantica della modernità, nonché dell’universalismo dell’illuminismo. In questa chiave prospettica, come ha ancora rilevato Traverso, «i campi di sterminio non potevano più essere ridotti a un incidente di percorso, per quanto grave, sulla via del miglioramento ineluttabile dell’umanità, né visti come un tentativo oscurantista di fermare la marcia in avanti della storia. Apparivano piuttosto come un prodotto legittimo e autentico della civiltà occidentale, di cui svelavano il lato cupo e distruttore, la razionalità strumentale messa al servizio del massacro»
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Non a caso un esule come Ernst Cassirer , rappresentante dell’ Aufklärung, nell’ultima fase della sua vita, con le riflessioni raccolte nel saggio The Myth of the State, ha denunciato il razzismo nazista quale forma moderna della regressione verso il mito. A suo avviso «in politica, viviamo sempre su un terreno vulcanico. Dobbiamo essere preparati a convulsioni ed eruzioni improvvise. In tutti i momenti critici della vita sociale dell’uomo, le forze razionali che si oppongono al sorgere delle vecchie concezioni mitiche non sono più sicure di se stesse. In questi momenti, diremo che è tornata l’ora del mito. Poiché il mito non è stato realmente vinto e soggiogato. È sempre là, che occhieggia nell’ombra e aspetta la sua ora e la sua possibilità di risorgere. Quell’ora verrà non appena le altre forze vincolanti della vita sociale dell’uomo, per una ragione o per l’altra, perdano la loro forza e non siano più in grado di combattere le potenze demoniache del mito» (E. Cassirer, Il mito dello stato, trad. it. di Camillo Pellizzi, Longanesi & C., Milano 1971, p. 473). Non per nulla Cassirer analizza il riemergere, nel mondo nazista, dell’ homo magus che si allea con l’ homo faber, dando origine ad una nuova e inquietante figura: «l’uomo politico moderno ha dovuto combinare in se stesso due funzioni interamente diverse, e persino incompatibili. Egli è costretto ad agire, al tempo stesso, come homo magus e come homo faber. Egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa. Ma quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso; ogni passo è ben preparato e premeditato. Questa strana combinazione è per l’appunto uno dei tratti più sorprendenti dei nostri miti politici» (p. 476). Non per nulla Cassirer analizza finemente la forza pervasiva del nazismo considerando l’impiego magico del linguaggio e la connessa nascita di un nuovo lessico: la nuova lingua tedesca, abilmente plasmata e sistematicamente creata dai nazisti che sostituisce all’impiego semantico della parola il suo uso magico. In questa chiave l’antisemitismo nazista colpiva dunque negli ebrei le radici stesse della razionalità occidentale.
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come ha rilevato Simon Wiesenthal, presentando Gli schiavi di Hitler di Lazzero Ricciotti, «dopo la fine della seconda guerra mondiale è invalso nell’uso affermare che fascismo e nazismo sono equivalenti. Ma ciò significa concedere al nazismo una patina d’innocuità. Il fascismo era abbastanza brutto, ma per diversi motivi il nazismo lo era molto di più. Il nazismo si è reso responsabile di una catastrofe a livello europeo che non ha risparmiato quasi nessun paese del continente.
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